Lavoro: quando e come fare causa per demansionamento  
Fonte:legge per tutti


Essere costretti a svolgere una mansione inferiore è illegale, tranne in alcuni casi. Vediamo quando rifiutarsi e a chi rivolgersi in caso di dequalificazione.
Entrare in un posto di lavoro con una mansione ed essere costretto a svolgerne una con un inquadramento inferiore non è legale. E’ il cosiddetto demansionamento: uno viene assunto, ad esempio, per fare il capoufficio e poi si ritrova fisso al centralino: il lavoratore può rifiutarsi in quanto viene lesa la professionalità da lui acquisita.
E’ importante, quindi, rispettare le regole del gioco sin dal momento dell’assunzione: il datore di lavoro è tenuto ad informare subito e per iscritto il dipendente (di norma lo si fa nella lettera di assunzione) la sua categoria contrattuale e la sua qualifica rapportate alle mansioni per cui il lavoratore è stato assunto. Se non ci sono delle indicazioni precise sulla qualifica, fa riferimento alle mansioni effettivamente svolte in modo stabile. Ci sono, però, alcune eccezioni in cui il demansionamento o la dequalificazione del dipendente (cioè farlo lavorare poco o nulla oppure dargli un incarico inferiore rispetto alle sue mansioni) sono ammissibili. In questi casi, fare causa per demansionamento è un’impresa poco consigliabile.
Quando è possibile il demansionamento
Il demansionamento è ammesso, cioè il lavoratore può essere spostato in livello d’inquadramento inferiore pur rimanendo nella stessa categoria legale, se:
 c’è una modifica dell’assetto organizzativo dell’azienda che coinvolge la posizione del lavoratore;  c’è una clausola all’interno del contratto nazionale di categoria che consente questo tipo di azione da parte del datore di lavoro.
La modifica della categoria non deve rispondere per forza ad un’esigenza dell’azienda: il Jobs Act consente di cambiare il livello d’inquadramento del dipendente anche per una necessità oggettiva del lavoratore. Ad esempio, se il mancato cambiamento di quella categoria contrattuale dovesse comportare per il dipendente la perdita del posto. O, ancora, per migliorare le condizioni di vita del lavoratore (minore livello di stress, orari ridotti rispetto alla mansione precedente, ecc.).
Naturalmente, l’azienda deve comunicare al dipendente il cambio di qualifica per iscritto. Altrimenti è come se non avesse fatto nulla.
Ci sono, inoltre, diverse sentenze della Corte di Cassazione che legittimano il demansionamento in certe circostanze. Ad esempio:
 quando il lavoratore deve svolgere mansioni inferiori marginali ed accessorie rispetto a quelle di competenza, a patto che non rientrino nella competenza specifica di altri lavoratori di professionalità meno elevata e che l’attività prevalente e assorbente del lavoratore rientri tra quelle previste dalla categoria di appartenenza [1];
 quando viene firmato un nuovo contratto nazionale di categoria che ridisegna le qualifiche ed i rapporti di equivalenza tra le varie mansioni, a patto che venga salvaguardata la professionalità già raggiunta dal lavoratore [2];  quando il lavoratore è affetto di infermità permanente, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore [3];  quando il lavoratore ha svolto per un periodo limitato una mansione di livello superiore al suo e poi torna alle sue normali mansioni [4].
Quando rifiutarsi di svolgere nuove mansioni
Dire di no ad una nuova mansione imposta dal datore di lavoro non è così semplice ma, tuttavia, possibile (e a volte anche raccomandabile). Il punto è che bisogna farlo in buona fede ed in modo proporzionato [5]. Che cosa vuol dire «buona fede»? Significa adottare un comportamento che non sia contrario ai principi generali della correttezza e lealtà e che sia oggettivamente ragionevole e logico.
Così, per dire: mettiamo il caso di una centralinista assente dal lavoro per un paio di giorni. In azienda non c’è un’altra persona di pari grado per sostituirla. Il datore di lavoro chiede alla segretaria di un altro ufficio di prendere il posto al centralino solo per quel paio di giorni. Se la segretaria si rifiuta argomentando che non rientra nelle sue mansioni e che, se il telefono squilla a vuoto per due giorni, peggio per l’azienda, sarebbe difficile dimostrare la sua buona fede, la sua lealtà e la sua correttezza.
Se, invece, il datore di lavoro licenza la centralinista senza aver mai cercato una persona di pari grado e pretende che una dipendente di livello superiore occupi quel posto in eterno, il discorso cambia: l’inadempimento del lavoratore risulta proporzionato al precedente inadempimento del datore di lavoro [6].
Demansionamento: come e quando fare causa
Di conseguenza, il lavoratore può fare causa per demansionamento quando è costretto a svolgere una mansione inferiore a quella per cui è stato assunto (a parte le ipotesi già citate) e quando, dovendo fare una mansione inferiore, non gli vengono mantenuti il livello di inquadramento e la retribuzione riconosciuti prima del demansionamento.
In questi casi, il dipendente può fare causa rivolgendosi al Tribunale del Lavoro e chiedere (anche in via d’urgenza) il riconoscimento della qualifica corretta. Inoltre, quando la gravità del demansionamento non consente la normale prosecuzione del rapporto di lavoro (perché, ad esempio, è venuta meno la fiducia) il dipendente può chiedere di recedere il contratto per giusta causa.
Cosa può decidere il giudice
Il giudice, quando accerta il demansionamento come una violazione del contratto di lavoro, può decidere di condannare il datore di lavoro a:
 reintegrare il lavoratore nella posizione precedente o in una equivalente;  un risarcimento del danno patrimoniale, relativo alle retribuzioni eventualmente maturate durante il demansionamento, nel caso fossero state inferiori a quelle spettanti;  un risarcimento del danno non patrimoniale determinato dal demansionamento subìto (lo stress psicologico, ad esempio, per aver dovuto svolgere un lavoro ben al di sotto della professionalità del dipendente).
Demansionamento: la prova del danno
Abbiamo parlato di danno patrimoniale e di danno non patrimoniale. In entrambi i casi, la prova è a carico del lavoratore, il quale deve dimostrare che ha avuto una riduzione dello stipendio e che ha subìto un disagio psico-fisico [7] proprio a causa del demansionamento.
Per quantificare il danno patrimoniale, però, non basta basarsi su quanto si è perso in busta paga, cioè su quanto è stato percepito di meno per svolgere una mansione inferiore. Bisogna considerare anche il danno fatto al futuro del dipendente. Ad esempio: se da responsabile di reparto mi passano al ruolo di operaio semplice, mi risulterà più complicato sia crescere all’interno dell’azienda sia trovare un nuovo lavoro come responsabile di reparto. La «retrocessione», infatti, avrà un peso anche economico – quindi un danno patrimoniale – sul mio futuro lavorativo.
note
[1] Cass. sent. n. 6714/2003; Cass. sent. n. 7821/2001.
[2] Cass. sent. n. 12821/2002; Cass. sent. n. 4989/2014.
[3] Cass. sent. n. 7755/1998.
[4] Cass. sent. n. 7100/14.
[5] Cass. sent. n. 1693/2013; Cass. sent. n. 4060/2008; Cass. sent. n. 3304/2008.
[6] Cass. sent. n. 12121/1995.
[7] Cass. sent. n. 11045/2004; Cass. sent. n. 10/2002; Cass. sent. n. 14199/2001.