Le responsabilità penale e disciplinare dei pubblici dipendenti
Fonte:legge per tutti

Tutti noi siamo responsabili della nostra condotta, ma il rapporto di impiego e, in specie, quello con una pubblica amministrazione, può essere fonte di ulteriori e peculiari forme di responsabilità, che assumono particolare rilievo qualora risultino collegate all’espletamento delle mansioni che contrattualmente sono state assegnate al dipendente.
 
Il pubblico dipendente, infatti, nello svolgimento del rapporto lavorativo, può astrattamente incorrere in quattro tipologie di responsabilità:
— civile: se arreca un danno a terzi, interni o esterni all’amministrazione, ovvero a quest’ultima;
— penale: se tiene una condotta delittuosa con effetti pregiudizievoli per l’amministrazione di appartenenza;
— amministrativo-contabile: se arreca ad una pubblica amministrazione un danno di tipo erariale, diretto o indiretto (cioè quello in cui il pregiudizio non è causato all’ente direttamente dal dipendente, ma deriva dal risarcimento ottenuto da un terzo danneggiato da attività imputabili alla stessa amministrazione);
— disciplinare: se viola gli obblighi di condotta sanciti direttamente dalla legge o dal codice di comportamento o dal contratto collettivo nazionale di lavoro.
 
La norma fondamentale in relazione alla quale si configura il principio di responsabilità del dipendente pubblico è l’art. 28 della nostra Costituzione, secondo cui «i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici».
Proprio in relazione a questo precetto costituzionale è stata elaborata la teoria dell’immedesimazione organica, in virtù della quale il dipendente e l’amministrazione cui lo stesso appartiene possono essere chiamati in solido a rispondere dei danni causati a terzi, laddove la condotta sia stata posta in essere dal lavoratore nell’ambito delle proprie attribuzioni e risulti comunque rivolta alla realizzazione dei fini istituzionali dell’ente di appartenenza.
 Tutte le richiamate tipologie di responsabilità non sono tra loro alternative o incompatibili, ma possono concorrere, poiché la medesima condotta può dar luogo alla violazione di distinti precetti e, quindi, essere fonte di distinte e concomitanti responsabilità ed il suo autore potrà essere assoggettato a più sanzioni di natura diversa (penale o disciplinare) o chiamato a rispondere del danno sotto diverso titolo (civile o erariale).
 Così, ad esempio, nell’ipotesi in cui un dipendente si allontani ingiustificatamente dal proprio ufficio dopo la timbratura del cartellino di presenza, potrà ipotizzarsi sia un reato di truffa ai danni dell’ente di appartenenza, sia un danno di tipo erariale, derivante dalla erogazione del trattamento economico non accompagnato dalla controprestazione lavorativa, nonché dalla lesione all’immagine dell’ente di appartenenza (ex art. 55quinquies comma 2, D.Lgs. 165/2001). Tale condotta rileva anche come illecito di natura disciplinare.
 Viceversa, è anche possibile il consumarsi di condotte che, pur rilevanti sul piano della responsabilità penale o civile, non spieghino alcuna valenza su quello della responsabilità disciplinare o erariale. Classico esempio è quello del dipendente che, alla guida di un veicolo personale e fuori dall’orario di lavoro, sia coinvolto in un incidente stradale e causi il grave ferimento o il decesso di un terzo.
  La responsabilità penale e i delitti contro la pubblica amministrazione
La responsabilità penale si configura quando la trasgressione dei doveri d’ufficio assume il carattere della violazione dell’ordine giuridico generale e si concreta nella figura del reato.
 
Il titolo II del libro II del codice penale è dedicato all’esame dei delitti contro la pubblica amministrazione. Oggetto giuridico di tali reati è il regolare svolgimento ed il prestigio degli enti pubblici e dei soggetti che ad essi appartengono. Questo «gruppo» di reati è stato sensibilmente inciso dalla L. 6-11-2012, n. 190, cd. legge anticorruzione, con cui il legislatore ha inteso potenziare la risposta punitiva dello Stato a fronte di condotte illecite poste in essere dai soggetti rivestite di funzioni pubbliche nell’esercizio di tali funzioni.
 I delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., in particolare, presuppongono, in primo luogo, che vi sia un soggetto che rivesta una determinata qualifica: si tratta delle figure del pubblico ufficiale, dell’incaricato di pubblico servizio nonché dell’esercente un servizio di pubblica necessità.
 Per quanto concerne, invece, le singole figure delittuose, bisogna citare, tra le altre:
 — il peculato, che si configura come una appropriazione indebita del pubblico funzionario, avente la disponibilità di determinati oggetti per ragioni del suo ufficio (artt. 314 e 323bis c.p.);
 — la concussione, che comporta una sorta di sopraffazione del pubblico dipendente nei confronti dei cittadini. Essa ricorre quando il pubblico ufficiale, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere utilità, in maniera indebita (artt. 317 e 323bis c.p.);
 — la corruzione, che si sostanzia, in genere, nella condotta propria del pubblico ufficiale che riceve, per sé o per altri, denaro o altre utilità per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri (artt. 318-322 c.p.);
 — l’abuso di ufficio, che si delinea quando un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo
congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto (art. 323 c.p.);
 — la rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio (art. 326 c.p.);
 — il rifiuto e l’omissione di atti d’ufficio: l’art. 328 c.p. dispone che la prima fattispecie sanziona il fatto causato da un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, che rifiuta indebitamente un atto che per ragioni del suo ufficio deve essere compiuto, mentre la seconda punisce la condotta consistente nel non compiere entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse, l’atto dovuto, senza rispondere per esporre le ragioni del ritardo.
 La L. 190/2012 ha ampliato la nozione di corruzione, prevedendo la sostituzione della fattispecie della corruzione per atti d’ufficio, ex art. 318 c.p., con quella della corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.): viene punito con la reclusione da uno a cinque anni il pubblico ufficiale che per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri riceve indebitamente, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa.
 La differenza sostanziale è la seguente: la precedente fattispecie riguardava le condotte finalizzate a porre in essere un atto di ufficio, mentre l’attuale concerne il più generale esercizio di funzioni e poteri. La nuova formulazione, infatti, lega la promessa di percezione o di indebita retribuzione all’esercizio delle funzioni o poteri del pubblico ufficiale nel senso voluto da corruttore.
 Viene poi configurato il nuovo reato di «traffico di influenze illecite» (art. 346bis c.p.): chiunque, sfruttando la relazione esistente con un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere a sé o ad altri denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita con il funzionario pubblico (o per remunerare quest’ultimo) in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio ovvero all’omissione o ritardo di un atto del suo ufficio, è punito con la reclusione da uno a tre anni.
 
 La responsabilità disciplinare
 A) Fondamento
La responsabilità disciplinare è quella che discende dalla violazione degli obblighi di condotta cui il pubblico dipendente deve attenersi. Tali obblighi sono previsti, a loro volta, dalla legge, dai codici di comportamento e/o dal contratto collettivo nazionale.
 Nel vigore della disciplina pubblicistica, il potere disciplinare esercitato dall’amministrazione datrice di lavoro veniva ancorato alla posizione di supremazia speciale della P.A., cui corrispondeva una posizione di soggezione speciale del dipendente pubblico.
 L’assetto descritto ha subìto una radicale trasformazione in seguito alla privatizzazione del pubblico impiego, almeno per quanto concerne le categorie di impiegati cd. contrattualizzati o privatizzati. La P.A. si spoglia della supremazia esercitata sui propri dipendenti e assume il ruolo di parte contrattuale: in tale veste essa è chiamata a gestire i rapporti con i propri dipendenti con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro (art. 5, comma 2, D.Lgs. 165/2001). Rientrano, in particolare, nell’esercizio dei poteri dirigenziali le misure inerenti la gestione delle risorse umane nel rispetto del principio di pari opportunità, nonché la direzione, l’organizzazione del lavoro nell’ambito degli uffici.
 A tali poteri va ricondotto anche quello disciplinare, che costituisce una forma di autotutela con la quale la pubblica amministrazione può far fronte all’inosservanza dei doveri del dipendente (art. 2106 c.c.). Questa norma giustifica la possibilità per il datore di lavoro di infliggere sanzioni
disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione posta in essere e con specifico riferimento all’inosservanza degli obblighi di fedeltà e diligenza delineati dagli artt. 2104 e 2105 c.c.
 La materia della responsabilità e delle sanzioni disciplinari rappresenta uno dei punti principali delle riforme che, soprattutto nel corso del 2009, hanno inciso sulla disciplina dell’impiego pubblico.
 B) Sanzioni disciplinari e responsabilità alla luce della riforma Brunetta
La legge delega n. 15 del 2009 ha dettato principi e criteri in materia di sanzioni disciplinari e di responsabilità dei pubblici dipendenti.
 Il D.Lgs. 150/2009 recepisce puntualmente tali indicazioni, dedicando un intero Capo alla disciplina delle sanzioni e delle responsabilità dei lavoratori pubblici, nell’intento di potenziare il livello di efficienza dei pubblici uffici e di contrastare i fenomeni di scarsa produttività e di assenteismo.
Innanzitutto, il legislatore stabilisce che resta ferma l’attribuzione al giudice ordinario delle controversie relative al procedimento e alle sanzioni disciplinari, ai sensi dell’art. 63 D.Lgs. 165/2001.
Inoltre:
— la materia disciplinare viene sottratta quasi completamente alla contrattazione collettiva: le disposizioni in questo ambito costituiscono norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c., e si applicano a tutti i rapporti di lavoro con le amministrazioni che siano stati privatizzati. La tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita, invece, dalla contrattazione collettiva, fatta eccezione per le norme introdotte dal decreto Brunetta nel Titolo IV del D.Lgs. 165/2001;
Lo svolgimento del rapporto di lavoro. Diritti, doveri e responsabilità 129
 — si procede alla semplificazione dei procedimenti disciplinari e si prevede la pubblicazione sul sito della P.A. del codice disciplinare, nonché l’obbligatorietà dell’azione disciplinare per i dirigenti e per i soggetti preposti alle unità organizzative;
 — viene, infine, predisposto un articolato sistema di irrogazione delle sanzioni, con particolare riferimento a quella del licenziamento disciplinare.
 La contrattazione collettiva non può istituire procedure di impugnazione dei provvedimenti disciplinari, ferma restando la facoltà di disciplinare mediante i contratti collettivi procedure di conciliazione non obbligatoria, fuori dei casi per i quali è prevista la sanzione disciplinare del licenziamento, da instaurarsi e concludersi entro un termine non superiore a trenta giorni dalla contestazione dell’addebito e comunque prima dell’irrogazione della sanzione. La sanzione concordemente determinata all’esito di tali procedure non può essere di specie diversa da quella prevista, dalla legge o dal contratto collettivo, per l’infrazione per cui si procede e non è soggetta ad impugnazione. I termini del procedimento disciplinare restano sospesi dalla data di apertura della procedura conciliativa e riprendono a decorrere nel caso di conclusione con esito negativo. Il contratto collettivo definisce gli atti della procedura conciliativa che ne determinano l’inizio e la conclusione.
 Giurisprudenza
La Suprema Corte ha evidenziato, circa la problematica dell’affissione del codice disciplinare, che «in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al cd. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non sia
necessario provvedere alla affissione del codice disciplinare, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta (vedi ex plurimis, Cass. 27-1-2011, n. 1926).
 Da quanto esposto emerge, tuttavia, che quando la condotta contestata al lavoratore appaia violatrice non di generali obblighi di legge ma di puntuali regole comportamentali negozialmente previste e funzionali al miglior svolgimento del rapporto di lavoro, l’affissione si presenta necessaria» (Cass. civ., sez. lav., 21- 7-2015, n. 15218).
 Il nuovo procedimento disciplinare
Il nuovo art. 55bis del D.Lgs. 165/2001, introdotto dalla novella del 2009, si occupa del procedimento disciplinare, prevedendone nuove forme e termini.
Le due tipologie di svolgimento dell’iter, che è possibile definire, rispettivamente, come procedimento disciplinare semplificato ed ordinario, pur avendo analoga struttura, si differenziano quanto a durata ed organo competente al loro espletamento.
 Il procedimento «semplificato» viene affidato interamente al dirigente responsabile della struttura presso la quale presta servizio il dipendente incolpato.
 Ciò negli enti in cui sia presente la figura dirigenziale e, in ogni caso, a condizione che la sanzione da irrogare non sia superiore a quella della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per più di dieci giorni.