Mobbing: quando scatta e come si prova
Fonte: legge per tutti
Lavoro dipendente subordinato: presupposti e condizioni per la causa di mobbing in azienda nei confronti del datore di lavoro.

Vessazioni in azienda: un capitolo spesso ricorrente nelle relazioni tra lavoratore e datore di lavoro, ma non tutte le condotte rientrano nel fenomeno del mobbing come spesso, invece, i lavoratori vorrebbero. Così è bene chiarire fino a quando il comportamento del datore è un semplice abuso isolato, comunque impugnabile davanti al giudice, oppure rientra nel mobbing e, in tal caso, consente al dipendente una tutela più ampia anche in termini di risarcimento.
 Poiché il datore di lavoro è tenuto, in generale, a preservare l’integrità fisica e morale del lavoratore, pena il risarcimento dell’eventuale danno (anche non patrimoniale), è anche obbligato a evitare comportamenti mobbizzanti, tanto nell’ipotesi in cui l’autore sia egli stesso, quanto invece il superiore gerarchico del singolo lavoratore.
 Nel mobbing rientrano quelle condotte vessatorie, reiterate e durature, rivolte nei confronti di un lavoratore ad opera di superiori gerarchici (mobbing verticale) e/o colleghi (mobbing orizzontale).
 Secondo la Cassazione, perché scatti il mobbing è necessario che il comportamento illecito presenti le seguenti caratteristiche [Cass. sent. n. 19782/2014, n. 12725/2013, n. 2711/2012, n. 12048/2011, n. 3785/2009]  
 – la sistematica protrazione nel tempo di una pluralità di atti anche di per sé – e singolarmente presi – legittimi. In pratica, la caratteristica del mobbing è quella di non esaurirsi in un singolo atto illecito, ma in un complesso di atti, tutti diretti al medesimo scopo che si protraggono nel tempo. Di conseguenza, il mobbing non può realizzarsi attraverso una condotta istantanea. Un periodo di sei mesi è invece stato ritenuto sufficiente per integrare l’idoneità lesiva della condotta nel tempo [Cass. sent. n. 20046/2009, n. 22858/2008.];
 – la volontà che sta sotto tali atti, volta alla persecuzione o all’emarginazione del dipendente o – anche in assenza di un esplicito fine persecutorio – diretta a mortificare il lavoratore;
 – il danno al lavoratore sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico;
 – il rapporto di causa-effetto tra il danno e la condotta del datore di lavoro: in pratica il pregiudizio all’integrità psicofisica del dipendente deve essere conseguenza immediata e diretta solo del comportamento mobbizzante e non di altro.
 Il datore di lavoro è responsabile per i comportamenti “mobbizzanti”:
– da egli stesso realizzati in modo doloso;
– posti in essere da altro dipendente (o in generale dai colleghi). In tal caso la responsabilità del datore di lavoro sussiste anche in assenza di un suo specifico intento lesivo. Ciò in quanto egli ha il dovere di reprimere, di prevenire e di scoraggiare tali comportamenti.
 Il datore di lavoro non evita la responsabilità dimostrando di aver adottato qualche semplice e tardivo intervento “pacificatore”, non seguito da concrete ed effettive misure e da vigilanza onde evitare che il fenomeno si ripeta.
 Qualche esempio di mobbing
Facciamo qualche esempio di casi concreti in cui i giudici hanno ritenuto sussistente una condotta mobbizzante da parte dell’azienda:
 – riduzione ingiustificata dell’autonomia operativa e decisionale riservata al lavoratore: tale comportamento, infatti, di fronte a una precedente situazione di fiducia nei suoi confronti e a margini di manovra riconosciutigli dall’azienda, si traduce in una mortificazione sul piano professionale;
 – brusca e improvvisa interruzione della carriera professionale;
 – ambiente di lavoro ostile: l’isolamento e l’emarginazione del lavoratore rispetto al contesto aziendale;
 – umiliazioni e pressioni psicologiche comportanti sofferenze morali, danni alla vita di relazione ed esaurimento nervoso; il tipico caso è quello del lavoratore messo costantemente in ridicolo davanti ai colleghi;
 – demansionamento e successiva privazione di compiti; l’attribuzione di compiti dequalificanti volti solo a svilire le sue capacità e il bagaglio di conoscenze ormai acquisito;
 – la sistematica negazione di ferie e permessi o di richiesta di promozione, formalmente legittima, solo in apparenza giustificati dalle necessità dell’azienda, in realtà invece sorretti dall’intenzione di perseguire il dipendente, lederlo e denigrarlo;
 – anche una perdurante situazione di tensione, derivante da sanzioni disciplinari illegittime, può essere considerata un’ipotesi di mobbing;
 – adozione di provvedimenti disciplinari per ragioni strumentali ed in maniera sostanzialmente pretestuosa, amplificando l’importanza attribuita a fatti di modesta rilevanza con la specifica volontà di colpire la lavoratrice per indurla alle dimissioni, e/o per precostituire una base per disporre il suo licenziamento.
 I sintomi del mobbing
Per evitare che vengano avviate cause di mobbing pur in assenza dei relativi presupposti, la Cassazione, in una importante sentenza [Cass. sent. n. 10037 del 15.05.2015.], ha individuato quelle che sono le spie in presenza delle quali si può parlare di tale illecito.
 1- Ambiente di lavoro
La vessazione deve avvenire sul posto di lavoro e non all’esterno. Pertanto, la mortificazione fatta dal datore di lavoro al dipendente in una pubblica piazza o in una serie di incontri extralavorativi (cene, meeting, ecc.) non può rientrare nel mobbing.
 2- Durata
L’intento persecutorio non deve esaurirsi in una o più singole condotte, ma deve durare nel tempo. La giurisprudenza ha ritenuto che il periodo minimo di durata delle vessazione, a partire dal quale può
iniziare a parlarsi di mobbing, è di 6 mesi. Nel caso, invece, del cosiddetto “quick mobbing” (ossia di attacchi particolarmente frequenti ed intensi) il termine viene ridotto a 3 mesi.
 3- Frequenza
Anche la cadenza delle vessazioni deve essere frequente e non limitarsi a sporadici episodi. Per esempio, non rientra nel mobbing un comportamento che, nell’arco di sei mesi, abbia visto solo tre episodi mobbizzanti. Secondo la giurisprudenza, il comportamento deve ripetersi con una cadenza periodica di almeno alcune volte al mese.
 4- Azioni  
Le azioni subite devono appartenere ad almeno due di cinque specifiche categorie:
 – attacchi ai contatti umani e alla possibilità di comunicare;
– isolamento sistematico;
– cambiamenti nelle mansioni lavorative;
– attacchi alla reputazione;
– violenze e/o minacce di violenza.
Si veda il precedente paragrafo relativo agli esempi di mobbing.
 5- Dislivello tra gli antagonisti
È necessario che la vittima sia in una posizione di inferiorità, di maggiore debolezza, non necessariamente riferita alla posizione gerarchica nell’organigramma aziendale. È sufficiente che il lavoratore non abbia strumenti propri per difendersi dalle strategie di attacco dell’azienda (salvo, ovviamente, il ricorso al giudice).
 6- Andamento secondo fasi successive
È necessario che le condotte abbiamo raggiunto uno o più lavoratori specificamente individuati sino a fargli avvertire l’inasprimento delle relazioni interpersonali e un crescente disagio psicologico.
 7- Intento persecutorio
Nella vicenda deve essere riscontrabile un disegno vessatorio coerente e finalizzato, chiaramente ostile e negativo.
 Risarcimento del danno
In caso di mobbing accertato il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno. Il danno risarcibile può consistere nel:
 – danno patrimoniale (eventuale perdita di guadagno, riduzione dello stipendio, cure mediche sostenute per curare la sindrome ansiosa e da stress, l’esaurimento nervoso, ecc.)
 – danno alla salute fisica o psichica, danni morali, danni agli aspetti della personalità umana diversi dalla salute e riconosciuti dalla Costituzione (es.: il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa ecc.)..
  Cosa deve dimostrare il lavoratore vittima di mobbing
Nell’ipotesi in cui si proceda in causa, davanti al Tribunale ordinario, sezione lavoro, il cosiddetto onere della prova è così ripartito:
 1- il datore di lavoro deve provare di avere adempiuto all’obbligo di protezione dell’integrità psicofisica del lavoratore;
 2- il lavoratore, invece, deve solo provare:
 – un danno obiettivo alla sua integrità psico-fisica; non è sufficiente che l’evento sia percepito come lesivo dal lavoratore, ma in realtà – tenuto conto di un canone medio – non lo sia;
 
– il rapporto di causa-effetto (cosiddetto nesso di causalità) tra tale danno e l’espletamento della propria prestazione lavorativa.
 Prescrizione della causa di mobbing
La causa di mobbing può essere esercitata entro massimo 10 anni che iniziano a decorrere dalla manifestazione del danno (e non dall’inizio delle vessazioni). Spirato tale termine, il diritto al risarcimento del danno si prescrive.