Se il collega fa la spia, la sua testimonia è valida?

Fonte: legge per tutti

L’azienda può utilizzare la testimonianza del collega di ufficio di un dipendente per incastrare quest’ultimo. Fare la spia non è un controllo a distanza del datore di lavoro.

Non si può impedire a un collega di fare la spia e denunciare al capo un comportamento illecito posto da uno dei dipendenti, magari dello stesso o di altro ufficio. Il fatto che il datore di lavoro utilizzi la testimonianza altrui per punire un lavoratore infedele, e magari lo faccia più volte, non significa che ha posto in essere uno dei «controlli a distanza» vietati dallo Statuto dei lavoratori e costituenti illecito penale. È quanto chiarito dal Tribunale di Firenze con una recente sentenza [1]. Quindi, se il collega fa la spia, la sua testimonianza è valida e può essere utilizzata come prova.

Come noto, lo Statuto dei lavoratori vieta [2] i controlli a distanza da parte del datore di lavoro; quest’ultimo non può cioè utilizzare dispositivi elettronici (come telecamere) o altri sistemi per indagare sull’esecuzione della prestazione lavorativa dei dipendenti (ad esempio per vedere se e quanto sono produttivi). Questo però non significa che se uno dei lavoratori trova il modo per spiare un collega (ad esempio, guardando attraverso le pareti a vetro trasparenti, che separano le rispettive scrivanie) non possa poi dirlo al capo: la sua testimonianza potrà ben essere utilizzata come prova per avviare un procedimento disciplinare e, se il comportamento incriminato è talmente grave da non consentire la prosecuzione del rapporto, si potrà arrivare al licenziamento.

Facciamo un esempio per meglio comprendere la questione. Immaginiamo che un dipendente utilizzi il computer di lavoro per navigare su internet per scopi personali o per chattare con amici attraverso Facebook. Lo fa, però, non nei momenti di pausa, bensì durante l’orario di lavoro. Talvolta, sempre negli orario in cui dovrebbe lavorare, apre il cellulare e fa un solitario a carte. Il collega di stanza – costretto a svolgere anche il lavoro del compagno poco diligente – inizialmente lo copre; ma poi, anche per non subire le contestazioni del capo per i continui ritardi commessi nel disbrigo delle pratiche, denuncia la condotta del collega. Insomma, fa la spia. Il datore così avvia nei confronti di quest’ultimo un procedimento disciplinare, ma l’accusato contesta la possibilità di utilizzare, come prova, la testimonianza del collega di scrivania, sospettando che questi sia un «inviato speciale» dai vertici dell’azienda solo per controllarlo. Cosa che sarebbe dimostrata dal suo ossessivo modo di controllarlo di continuo anche attraverso le pareti di vetro trasparente che separano le due postazioni di computer. Chi ha ragione?

Secondo il tribunale di Firenze, le «pareti a vetro», attraverso cui è possibile spiare la condotta del collega, non costituiscono «apparecchiature di controllo a distanza» del datore di lavoro e quindi la loro osservazione non è «controllo a distanza» vietata dalla legge. Quindi, la testimonianza del collega che fa la spia è valida e può essere utilizzata.

Inoltre, il collega che fa la spia non può essere considerato «personale di vigilanza» del datore per cui non si applicano i limiti stabiliti dallo Statuto dei lavoratori (che richiede il previo accordo con i sindacati). Detti limiti riguardano solo chi controlla per conto del datore: i lavoratori-colleghi, secondo la pronuncia in commento – anche qualora più volte facciano la spia – se non sono preposti in via continuativa alla sorveglianza ma, semplicemente, si limitano a notare le condotte del collega e, spontaneamente, le segnalano al datore, non sono «personale di vigilanza». Dunque la loro presenza non deve essere sottoposta ad accordo sindacale e la relativa testimonianza può essere utilizzata liberamente.

In ogni caso, chiude il giudice, il ripetuto utilizzo da parte del dipendente, per fini personali e in orario di lavoro, del computer aziendale non è un comportamento così grave da giustificare il licenziamento; rappresenta infatti una sospensione dell’attività lavorativa a cui si applica, proporzionalmente, una sanzione disciplinare conservativa.